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Sul Jobs act è in atto un vero e proprio tiro al piccione. Eccettuati (alcuni) esperti, gli unici a parlarne bene sono ormai i commentatori stranieri. Dal dibattito politico nazionale solo critiche. In parte si tratta di mosse tattiche in vista delle scadenze elettorali. Ma questa spirale di rimproveri riflette anche un tratto profondo della cultura politica nazionale: l’eccesso di aspettative nei confronti delle norme di legge, l’intolleranza dei limiti che la realtà inevitabilmente impone, il conseguenze disfattismo, secondo cui ci sarebbe voluto «ben altro» per risolvere i problemi. Una sindrome auto-lesionista, che non ci consente di cogliere i progressi lenti e graduali, svaluta il pragmatismo e alimenta la sfiducia dei cittadini.


Modello flexicurity

Il Jobs act merita invece una discussione seria. Valutarlo non è facile: i suoi effetti si dispiegano lentamente nel tempo. Per catturarli bisogna avere dati precisi e utilizzare metodi controfattuali: che cosa sarebbe successo se non fossero cambiate le regole? Prima ancora di procedere su questa strada, è bene però riflettere sul provvedimento in sé: i suoi obiettivi generali erano in linea con le sfide sul tappeto?

Negli ultimi due decenni, la maggior parte dei Paesi europei ha riorientato le politiche del lavoro verso la cosiddetta flexicurity, un modello sviluppato dai Paesi nordici e basato su regole flessibili per assunzioni e licenziamenti e tutele robuste (compresi i servizi) in caso di disoccupazione. Il Jobs act può essere considerato la «via italiana» verso quel modello. Un percorso di cui si iniziò a parlare già negli anni Novanta, ma mai seriamente imboccato. Con il risultato che il mercato occupazionale italiano è diventato uno fra più segmentati della Ue: posti di lavoro permanenti con ammortizzatori molto generosi, da un lato, e contratti a termine o «atipici» (come i co.co.co.) praticamente privi di protezioni, dall’altro. A seguito di un’enorme espansione dei secondi, soprattutto per i giovani, il nostro Paese aveva inaugurato un modello perverso che Stefano Sacchi e Fabio Berton hanno definito flex-insecurity: precarietà senza tutele.

Su questo sfondo, il Jobs act si è posto due obiettivi: ridurre rigidità e dualismi, offrendo più opportunità di occupazione stabile e al tempo stesso maggiore flessibilità alle imprese; superare la polarizzazione fra garantiti e non garantiti in termini di protezione sociale. I vari strumenti della riforma potevano essere disegnati meglio? Certamente, soprattutto col senno di poi. Lo stile comunicativo di Renzi ha alimentato l’eccesso di aspettative? D’accordo, nessuno è senza colpe. Ma il Jobs act va contato fra le non molte riforme strutturali che il nostro Paese è riuscito a produrre nell’ultimo venticinquennio, nel tentativo di avvicinarsi agli standard europei sul piano dell’efficienza e dell’equità.

Gli effetti concreti

Cosa si può dire degli effetti concreti? Le valutazioni più affidabili segnalano che il Jobs act ha inciso positivamente sull’occupazione stabile: dopo la sua introduzione vi è stato un significativo aumento dei contratti a tempo indeterminato, sia rispetto al passato (tabella 1) sia rispetto ad altri Paesi, come Spagna o Francia (tabella 2).


Tabella 1. Effetti del Jobs Act (2015)
Fonte: M. Centra, V. Gualtieri, INAPP su dati SISCO, Ministero del Lavoro. Valutazione controfattuale. Elaborazione a cura del Corriere della Sera.


Tabella 2. Disoccupazione e politiche attive (2014)
Fonte: Eurostat 2016. Elaborazione a cura del Corriere della Sera.

In base a dati provvisori, sembra che la tendenza sia continuata anche nel 2016. I critici sostengono che si sia trattato di un incremento «drogato» dalla decontribuzione, ma trascurano due aspetti. Tutti i paesi Ue hanno investito grosse somme in sussidi alle nuove assunzioni nell’ultimo triennio. Inoltre, all’estero gli oneri sociali sono strutturalmente più bassi. L’esperimento della decontribuzione conferma che il nostro costo del lavoro è troppo alto e disincentiva le assunzioni.

Occorre riflettere su come redistribuire il finanziamento del welfare fra i vari tipi di reddito. Il Jobs act ha avuto effetti positivi anche sulla sicurezza economica di chi perde il lavoro. Alla Naspi possono oggi accedere praticamente tutti i lavoratori dipendenti, compresi gli «atipici» (tabelle 3 e 4), con importi e durate fra le più alte in Europa. Rispetto agli altri Paesi, il welfare italiano ha sempre avuto buchi enormi in questo settore. Nessuno lo sottolinea, mai il Jobs act ci ha fatto fare un salto di qualità in termini di cittadinanza sociale: le nuove prestazioni sono infatti diritti soggettivi, che non dipendono più da mediazioni politico-sindacali. La Cassa integrazione è stata finalmente ricondotta alla sua funzione fisiologica di risposta alle crisi temporanee.


Tabella 3. Occupazione temporanea e transizioni
*% sul totale degli occupati **% sul totale contratti temporanei


Tabella 4. Esclusione da sussidi di disoccupazione
Fonte: *R. Quaranta e S. Sacchi dati Inps (2012-14); **S.Sacchi e G. Santoro dati 2014. Elaborazione a cura del Corriere della Sera.

Debolezze storiche

L’aspetto più problematico del Jobs act riguarda le politiche attive. L’attuazione di questa parte della riforma è in grave ritardo. Qui scontiamo debolezze davvero storiche, che riguardano in generale l’efficienza e la mentalità della nostra pubblica amministrazione, nonché la frammentazione regionale. Ma il governo avrebbe potuto fare di più. I servizi per l’impiego sono l’architrave della flexicurity. Su questo aspetto, le critiche colgono nel segno.

Il Jobs act non è riuscito a dispiegare il suo potenziale per incidere non solo sulle forme, ma anche sui livelli e la qualità dell’occupazione, soprattutto giovanile. Il lavoro dei giovani resta purtroppo un’emergenza nazionale. Ricordiamo però due cose. L’Italia ha un’incapacità strutturale di creare posti di lavoro che si porta dietro dagli anni Cinquanta e che è stata esacerbata dalla grande recessione. Inoltre, i livelli occupazionali dipendono da moltissimi fattori (autonome decisioni delle imprese, congiuntura, investimenti, capitale umano e così via), solo in parte controllabili per via legislativa.

Dall’estate 2014 alla fine del 2016 gli occupati sono comunque aumentati di circa 700 mila unità (Istat). Con le luci e le ombre che sempre accompagnano ogni riforma, il Jobs act ha segnato una svolta positiva. Fermiamo il tiro al piccione e avviamo una pacata discussione su come colmarne le lacune e potenziarne gli effetti positivi. Elaborando nuove proposte per le tante sfide che esulano dal perimetro di attenzione e di azione del Jobs act e che richiedono ulteriori e incisivi provvedimenti.

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 13 febbraio e riprodotto previo consenso dell’autore.