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Sono passati quattro mesi dalla presentazione della proposta del Sostegno per l’inclusione attiva (SIA) elaborata da un gruppo di esperti presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Dello schema di reddito minimo di cui si parlava nel documento originale, universale per tutti coloro versano in condizioni di povertà assoluta, poco o nulla è rimasto dopo il vaglio della legge di Stabilità. O meglio, di 22 pagine di sintesi, solo poche righe sono state considerate: quelle che consigliavano, in mancanza delle risorse necessarie per finanziare il progetto complessivo, di ricorrere quantomeno a un’estensione della cosiddetta Carta acquisti (quella nuova, istituita nel 2012).

Il finanziamento minimo per avviare il SIA era stimato a 1,5 miliardi di euro. La bozza di legge di Stabilità prevedeva in origine un rifinanziamento di 250 milioni per la vecchia Social card. A seguito degli emendamenti parlamentari il quadro è cambiato. Un complesso taglia e cuci di finanziamenti inseriti nella legge di Stabilità approvata il 27 dicembre (40 milioni l’anno per il triennio 2014-16 e parte dei 250 milioni già previsti) e fondi comunitari (per il Mezzogiorno e Fondo sociale europeo) permette di estendere la sperimentazione della nuova Carta acquisti a tutto il territorio nazionale per il prossimo triennio. Nonostante si parli di una ‘sperimentazione per il SIA’, la forte categorialità e la residualità della Carta hanno ben poco a che fare con l’universalismo auspicato dal SIA.

In un paese dove il numero di poveri (assoluti) è raddoppiato negli ultimi cinque anni, salendo a quasi 5 milioni, il nostro sistema di welfare sembra rimanere ancora una volta zoppo. Gran parte degli esclusi restano tali: non si delinea una concreta possibilità di inclusione per tutti coloro che sono stati tagliati fuori dalla crisi e non hanno i mezzi per farcela da sé. Di quello che voleva e poteva essere il SIA parliamo con la sociologa Chiara Saraceno, che ha fatto parte del gruppo di lavoro che lo ha proposto. Già membro di commissioni ministeriali sul tema della povertà in più di un’occasione e presidente della Commissione di Indagine sulla povertà e sull’emarginazione fra il 1998 e il 2000, lasciamo che l’esperienza di un’addetta ai lavori ritracci i contorni di questa occasione mancata, a partire delle origini del dibattito sull’introduzione di un ‘reddito per i poveri’ in Italia.

 

L’Italia, assieme alla Grecia, è l’unico paese nell’UE-28 privo di uno schema di reddito minimo. Quali ostacoli hanno impedito lo sviluppo di una misura del genere?

Il tentativo del SIA viene dopo la storia di un altro fallimento: quello del Reddito minimo di inserimento (RMI). Non è la prima volta che in Italia si discute, seppur tardivamente rispetto agli altri paesi europei, della necessità di introdurre questo strumento.

La prima che io ricordi è con la Commissione di indagine sulla povertà presieduta da Gorrieri (1984-85). Pubblicammo due quaderni: uno sulla revisione degli assegni per i figli in un ottica un po’ più universalistica e un altro sull’opportunità di introdurre un ‘minimo vitale’, come l’avevamo chiamato allora. Il progetto rimase però sulla carta. Dopodichè, una proposta più sistematica venne dalla Commissione per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale presieduta da Carniti (1994-98). La commissione Carniti aveva chiesto che venisse effettuata una prima fase di sperimentazione, al fine di verificare non solo l’efficacia della misura sui beneficiari, ma anche i requisiti organizzativi necessari per attuarla, sia nella parte monetaria che in quella di accompagnamento. La Commissione, infatti, si era ispirata al modello del Revenu minimum d’insertion francese che prevedeva misure di accompagnamento e integrazione sociale personalizzate accanto al trasferimento monetario. Aveva anche chiesto che, accanto al monitoraggio effettuato dal Ministero, vi fosse una valutazione da parte di un organismo indipendente. La soglia di povertà, quindi anche quella massima del trasferimento individuale era stata posta poco al di sotto della pensione sociale (l’unico reddito minimo esistente in Italia), con una franchigia del 20% del reddito da lavoro, per evitare effetti disincentivanti alla partecipazione al mercato del lavoro. Segnalo en passant che si trattava di una proposta molto diversa dall’attuale Carta acquisti sperimentale, sia perché non era limitata solo ad una particolare categoria di poveri sia perché non disincentivava la partecipazione al lavoro, laddove la Carta acquisti è destinata esclusivamente a famiglie con almeno un minore in cui nessun adulto sia occupato e almeno un componente abbia cessato l’attività lavorativa oppure, nei 6 mesi precedenti la presentazione della domanda, abbia percepito un reddito complessivo inferiore a 4.000 euro.

La proposta della commissione Carniti ebbe apparentemente ‘delle gambe’: da lì fu avviata la sperimentazione del RMI. Fu persino introdotta, nella legge 328 di riforma dell’assistenza, una norma che impegnava il parlamento ad introdurre il RMI sulla base degli esiti della sperimentazione. Quello che sembrava un promettente avvio fu tuttavia soffocato da una serie di compromessi e insipienze politiche. In primo luogo, fu impossibile effettuare la sperimentazione rispettando tutte le condizioni necessarie a renderla autenticamente tale: individuazione di realtà socio-economiche molto diversificate, campione di controllo, standardizzazione delle procedure per il monitoraggio, ecc. Pur affidando la valutazione della sperimentazione ad un organismo indipendente (per la prima volta in Italia), il governo scelse, infatti, di privilegiare i comuni più poveri, in maggior numero al Sud, sottolineando quindi più il carattere di – per quanto temporaneo – sostegno ai più poveri di questa misura che non la sua dimensione sperimentale. Inoltre non vincolò l’attuazione della sperimentazione all’osservanza da parte dei comuni delle procedure di documentazione e monitoraggio concordate, impedendo quindi che la valutazione potesse avvenire sulla base di dati omogenei per tutti i comuni coinvolti.
Non tanto il disegno sperimentale, quanto la tempistica fu tuttavia suicida. Il governo pose infatti la scadenza della sperimentazione esattamente al termine della legislatura. Di fatto la valutazione finale fu consegnata in pieno periodo elettorale. Senza attenderla e tanto meno discuterla, contro il parere della Commissione, il governo, per meri motivi elettorali, decise di proseguire la sperimentazione per altri due anni e di allargarla ad altri comuni. Il cambio di maggioranza e di governo pose di fatto fine al processo. Il rapporto di valutazione non fu nemmeno presentato al parlamento (Saraceno ne pubblicò una sintesi a sue spese: Saraceno, C. (a cura di), Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale 1997–2001, Roma, Carocci, 2002., nda) e la sperimentazione venne dichiarata fallita motu proprio dal Ministro Maroni.

Un completo fallimento?

La Commissione era giunta alla propria proposta in sostanziale isolamento politico, a parte l’appoggio dell’allora Ministra Turco. Allora – come oggi – la misura non aveva una constituency, mancava l’appoggio sia delle parti sociali che dei partiti. Nonostante ciò abbiamo tratto preziosi insegnamenti dalla sperimentazione del RMI: ad esempio, non si può affidarne l’attuazione ai piccoli comuni, occorre aggregare le unità amministrative. Molti facevano bandi, come sta succedendo anche per la Carta acquisti, svuotando di senso la misura, dato che l’esperienza di povertà non avviene a date fisse e neppure ci può essere una rotazione dei poveri nell’accesso al sostegno.

E gli esperimenti locali che hanno seguito?
Alcuni comuni (ad esempio Torino) avevano già da tempo una misura simile al RMI. Altri avevano una qualche misura di solo sostegno economico. In alcuni casi, l’esperienza del RMI e il dibattito

che aveva suscitato hanno stimolato alcune riforme di questi istituti. Dopo il RMI ci sono stati a livello regionale sia esempi positivi che (molti) negativi di introduzione di un reddito minimo. In sostanza però il quadro è quello di una grande frammentazione, una situazione da cuius regio eius religio dove la maggior parte degli interventi si compone di misure categoriali.

Arriviamo dunque al SIA

Nel discorso di insediamento, Letta parlò di introdurre il reddito minimo. La Commissione che ha lavorato alla proposta del SIA nasce innanzitutto dall’iniziativa di Maria Cecilia Guerra (Viceministro del lavoro e delle politiche sociali, già Sottosegretaria al medesimo Ministero col governo Monti). Prima di ricoprire la carica, con un gruppo di economisti aveva collaborato con l’IRS (Istituto per la ricerca sociale) alla formulazione di una proposta complessiva di riforma del welfare. Anche il Ministro Giovannini è convinto che sia necessario introdurre un reddito minimo: data la sua esperienza internazionale, sa bene che l’Italia è tra i pochi paesi OCSE senza uno schema di questo genere. E’ anche convinto che avere una misura di questo genere faciliterebbe anche la riforma degli ammortizzatori sociali destinati a chi perde il lavoro.

L’impressione è però quella che una forte pressione sia arrivata anche da attori esterni, quali ACLI e Caritas con il loro patto per un Reddito di inclusione sociale, il comitato che ha promosso la proposta di legge popolare a riguardo, e la società civile organizzata in generale

Un effetto secondario del fallimento del RMI è stato proprio questo: laddove attori non pubblici – come le ACLI, ma anche i sindacati – sono stati coinvolti in esperimenti locali, sono poi diventati anche sponsor della misura, nonostante in un primo momento alcuni di loro l’avessero ostacolata.
Il dibattito si è ora effettivamente allargato, ma il processo è iniziato allora.

Dall’inizio della crisi ad oggi è esplosa anche nell’opinione pubblica, al di fuori dei gruppi di esperti, la consapevolezza che c’è una falla da colmare se si vuole evitare che la coesione sociale crolli. A partire dalla campagna elettorale per le ultime politiche, il dibattito sulla necessità di uno schema di contrasto alla povertà sembrava aver catturato media e opinione pubblica come mai prima d’ora

Non sono però convinta che tutti sappiano di che cosa si parla. Esiste una grande confusione e eterogeneità di richieste: c’è chi lo vuole solo per i disoccupati, o per gli studenti. La categorialità sembra essere la malattia tipicamente italiana nell’approccio alle politiche sociali. Salvo che poi c’è chi fa un salto radicale nell’universalismo, auspicando l’introduzione di un reddito di cittadinanza universale. Intanto, continuiamo non avere uno strumento di sostegno per i poveri, legato solo alla mancanza di reddito sufficiente, senza altre qualificazioni.
In ogni caso, non credo che la costituzione del gruppo di lavoro abbia risposto alla pressione della società civile. E’ stato colto, piuttosto, il clima favorevole che c’è ora a differenza di prima. Si è colta la palla al balzo, pensando di farcela.

Ma nonostante ciò non è bastato…

Giovannini non è un politico, e la sua iniziativa non ha contato in sede decisionale. Purtroppo il SIA non sta a cuore a nessuno di quelli che hanno potere di veto. Non è una priorità dei partiti. Non ci si oppone, come accadeva nel ’97, perchè apertamente contrari al ‘dare soldi senza lavoro’ (anche se questa continua ad essere la posizione del centro-destra). Piuttosto la reazione è: “è una buona idea, ma non ci sono i fondi. Prima bisogna investire sul lavoro, poi garantire la Cassa integrazione (Cig), la Cig in deroga, gli esodati e tutte le varie categorie”.
Purtroppo non abbiamo introdotto una misura di sostegno al reddito per chi si trova in povertà quando finanziariamente sarebbe stato più facile (con il RMI, nda). Il problema del debito pubblico c’era già, ma era meno pressante e c’erano meno vincoli. Oggi anche i paesi dotati di uno schema di reddito minimo ne hanno ‘ristretto le maglie’. Tuttavia, in questi paesi l’esistenza di una misura tale non è messa in discussione e costituisce una voce consolidata nei bilanci. In Italia, invece, ci troviamo di fronte alla necessità di introdurre una nuova voce di spesa sociale a fronte di una competizione sempre più forte su risorse scarse. I poveri e le spese per il contrasto alla povertà non costituiscono degli interessi forti. Quindi non riescono ad avere priorità nelle negoziazioni sulle risorse, neppure a sinistra. Per motivi analoghi è difficile modificare davvero l’indennità di disoccupazione in un momento in cui questa aumenta e si allunga: la nuova Aspi lascia infatti dei buchi. Legittimamente, tutti hanno paura che, in attesa di una riforma più equa, a breve termine ci sia un ‘togliere senza dare’. Di conseguenza, si aumentano le categorie e la frammentazione del sistema esistente.

Gli squilibri del welfare italiano sono ormai cosa ben nota: quali spunti per politiche redistributive erano presenti nella proposta del SIA?

Nella proposta del SIA ci sono accenni al fatto che esso andrebbe inserito in una riforma organica, in senso più equitativo, dei trasferimenti monetari. Ad esempio, si suggerisce che se gli assegni al nucleo famigliare venissero riformati in direzione più universalistica, ancorché sulla base di una prova dei mezzi, una quota di famiglie con figli attualmente povera uscirebbe dalla povertà. Allo stesso tempo, occorrerebbe rivedere una serie di trasferimenti che seguono logiche contraddittorie e talvolta hanno esiti regressivi. Il gruppo dell’IRS, ad esempio, suggerisce di rivedere le pensioni integrate al minimo, che spesso vanno a beneficio di persone che appartengono a nuclei familiari non poveri. Su questo specifico aspetto io ho personalmente delle riserve. Piuttosto, penso che sarebbe opportuno – oltre a mettere un tetto a compensi e pensioni spropositate, specie nel pubblico, dal punto di vista dell’equità, più che colpire nel mucchio le pensioni alte, come ha fatto il governo Berlusconi prima (salvo essere messo in mora dalla Corte Costituzionale) ed ora quello Letta – effettuare una valutazione puntuale delle pensioni calcolate con il vecchio sistema retributivo, per vedere quali, e di quanto, hanno un ammontare superiore a quello che avrebbero se calcolate con l’attuale metodo contributivo. Per una semplice questione di equità, si potrebbe ridurre, o tassare in più, tutta o parte dell’eccedenza (la legge di Stabilità del governo Letta prevede un minimo prelievo sulle pensioni a partire da 14 volte il minimo. L’Inps stima comunque che i precettori di maxi-pensioni colpiti dal potenziale contributo siano meno di 30.000).

Occorrerebbe una constituency forte, a partire dai partiti, non tanto dai sindacati. Non possiamo infatti aspettarci che siano questi ultimi a farsi carico dei poveri: i sindacati, com’è prevedibile, ‘fanno il loro lavoro’, proteggendo gli iscritti, in gran numero pensionati e lavoratori a tempo indeterminato. Il problema è che non solo loro, ma tutti quanti sono corporativi. Questo è un paese in cui questioni gravi come la povertà dei minori (raddoppiata in pochi anni) non danno scandalo.

Alla radice di questo disinteresse non c’è solo la competizione con interessi più forti. C’è anche l’idea di dover puntare esclusivamente su una ripresa del mercato del lavoro e che ogni misura, incluse quelle di sostegno alla povertà, debba essere mirata ad un aumento dell’occupazione e dell’occupabilità. Tocchiamo qui una questione importante, un atteggiamento, a mio parere problematico, che informa in molti casi le stesse politiche di reddito minimo e da cui non è esente del tutto anche l’impostazione del SIA. Sembra cioè che i poveri siano tali perché non vogliono lavorare (e allora occorre incentivarli con un uso della carota, ma soprattutto del bastone) o perché non hanno sufficienti caratteristiche di occupabilità (e allora occorre rafforzarla). Si mette da parte il fatto che molti vorrebbero lavorare ma non trovano lavoro, o lo hanno perso, o non riescono a trovarlo per un numero sufficiente di ore, o ad un livello di compenso adeguato (i cosiddetti working poor). Sono tutti fenomeni molto aumentati con la crisi. Si insiste sulla centralità delle misure di attivazione quando in realtà il problema non è l’offerta di lavoro, ma la domanda che non c’è.

Non possiamo ignorare che c’è chi imbroglia e abusa, non è vero che i poveri hanno per definizione una fibra morale più debole dei non poveri. Soprattutto, non possiamo neppure ignorare che il mercato del lavoro e il funzionamento dell’economia hanno creato masse di poveri e che una futura, auspicabile, ripresa, non li assorbirà tutti, tanto meno nel breve-medio periodo. Garantire il diritto al consumo e ad un livello di vita decente dovrebbe essere lo scopo principale di una misura di sostegno al reddito, prioritario rispetto a tutti gli altri.

Nel SIA si trova comunque una forte enfasi sulle misure di attivazione?

Non c’è evidenza empirica che dica che i trasferimenti monetari ai poveri portino questi a ‘sedersi’. In realtà la maggioranza dei poveri vorrebbe lavorare per guadagnare a sufficienza per mantenere sè e la propria famiglia, non ‘vivere di sussidio’. Non nego che visioni molto eterogenee fossero presenti all’interno del gruppo di lavoro.
Mentre oggi in Europa si percepisce la condizionalità legata al sussidio come vincolo sempre più stringente, ai tempi del RMI pensavamo a un’attivazione in termini abilitanti. Già a fine anni ‘90 tutti gli schemi esistenti prevedevano forme di condizionalità. L’attivazione rischia ora di diffondere l’idea che i poveri vadano ‘marcati stretti’. L’obiettivo del SIA sarebbe quello di dare le risorse necessarie perchè ci possa poi essere un ingresso nel mercato del lavoro. Lo stesso nome della misura, frutto comunque di un grande compromesso, sintetizza la funzione del provvedimento.

Dati i vincoli di bilancio, sembra ci si sia spostati verso il ‘piano B’ della Carta acquisti. Quanto questo poteva essere implicito nel documento di proposta del SIA?

Noi avevamo proposto un inserimento graduale del SIA su scala nazionale, che riguardasse tutti i poveri e non solo una particolare categoria. Per partire da un livello basso che andasse a coprire il 50% della differenza fra reddito familiare e soglia di povertà assoluta era stato stimato che bastassero 1,5 miliardi. E’ costoso, ma d’altra parte non ci può essere inclusione sociale a costo zero. Dovrebbe essere inteso come Lep (Livello essenziale di prestazioni sociali), quindi una responsabilità del governo centrale. Tuttavia, dato che porterebbe comunque delle risorse alle regioni e agli ambiti locali, si auspica che questi siano disposti a concorrervi, sia per le spese organizzative che soprattutto per quelle legate alle misure di accompagnamento. In subordine, avevamo suggerito un’estensione della nuova carta acquisti non tanto a livello territoriale (come invece sta avvenendo), quanto dei soggetti cui si rivolge, in direzione, appunto, di un maggiore universalismo all’interno di chi è in povertà.

La buona notizia di fine anno è che la necessità di riprogrammare i Fondi europei per non doverli restituire (un’assurdità in un paese che si lamenta della scarsità di risorse, ma non è capace di spendere quelle che ha), all’ultimo minuto ha consentito di stanziare ulteriori fondi per il contrasto alla povertà. In particolare, è stata prolungata fino al 2015 la sperimentazione della nuova Carta acquisti al Sud, che ormai coinvolge tutti gli ambiti territoriali. In questo modo i fondi stanziati nella legge di Stabilità possono essere destinati all’allargamento della sperimentazione a tutti gli ambiti territoriali del Centro-Nord e non solo ai 12 comuni con più di 250.000 abitanti. Inoltre il Fondo sociale europeo destinato al contrasto all’esclusione sociale verrà finalizzato alle misure di accompagnamento che integrano il sostegno al reddito. Purtroppo, nonostante alcune confusioni terminologiche nella presentazione di questa decisione, si tratta ancora di una sperimentazione della Carta Acquisti e non del SIA. Nonostante siano stati allentati alcuni dei requisiti d’accesso, una forte categorialità prevale quindi ancora sull’universalismo prospettato dal SIA. I motivi non stanno nelle esigenze di una sperimentazione corretta, ma nell’arco temporale di spesa dei fondi europei e nell’assenza di un consenso nel governo sulla necessità di una misura come il SIA (si veda su questo lo scambio tra Saraceno e il Viceministro Guerra su la voce.info). Il Ministro Giovannini e il Viceministro Guerra sperano che l’allargamento e prolungamento della sperimentazione, oltre a consentire di verificare l’adeguatezza dell’impianto organizzativo e delle competenze professionali in tutti gli ambiti territoriali, favorisca la costruzione di un consenso per la messa a regime della misura più ambiziosa, appunto il SIA. Temo tuttavia che il prolungamento della sperimentazione in un clima politico incerto sia una scommessa rischiosa.

Che ruolo è previsto per il Terzo Settore nell’impianto di una misura come il SIA?

Il coinvolgimento degli attori non pubblici in schemi di questo tipo non è assolutamente una novità. Già con l’RMI avevamo pensato a questo, ricalcando l’esempio della Francia, dove ci si basava su una forte collaborazione fra assistenti sociali, parti sociali e una vasta gamma di attori. L’obiettivo era trovare di volta in volta l’attore che potesse intervenire in modo più efficace sui casi specifici. Nessuno ha mai pensato che le misure di accompagnamento dovessero spettare solo al Comune, nè negli anni ‘90, nè tantomeno adesso, laddove anche le attività che tipicamente spetterebbero all’ente locale spesso sono svolte sotto forma di collaborazioni con soggetti diversi. In più, non si dovrebbe considerare come interlocutore unico, o privilegiato, nelle attività di integrazione sociale soltanto il Terzo Settore. Occorre coinvolgere anche le imprese. E’ qui che i beneficiari possono svolgere tirocini o essere reinseriti a livello lavorativo. Per non chiudersi, bisogna coinvolgere le risorse locali nella loro interezza. Anche altri enti, come le scuole, possono giocare un ruolo chiave e innescare circoli virtuosi che giovino al contesto sociale in cui sono inseriti.

Con il RMI alcuni comuni si dotarono per la prima volta di un assistente sociale e ci fu un’effettiva progressione nello sviluppo dei servizi, ma la dissoluzione del progetto bruciò questi investimenti. I servizi connessi al sussidio costano anche di più del suo semplice esborso. Serve un investimento, che alla lunga costruisce capitale sociale e inclusione in senso più ampio: non solo dei poveri, ma coinvolgendo una varietà di attori che ‘si includono tra di loro’.
 

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