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Un numero crescente di Comuni è interessato a praticarlo e alcuni hanno già deliberato per attuarlo (da ultimo Milano); piace molto all’opinione pubblica, che lo trova innovativo, socialmente equo e benevolo; i mass media ne trattano in maniera favorevole, dando ampie informazioni circa le sue nuove implementazioni. Stiamo parlando del cosiddetto “baratto amministrativo”. In estrema sintesi si tratta di questo: se un cittadino ha debiti tributari arretrati con il proprio Comune, quest’ultimo può proporgli di saldare totalmente o parzialmente la morosità facendogli svolgere lavori o “lavoretti” di utilità sociale. Il baratto sta tutto qua: prestazioni lavorative in cambio dell’appianamento di una morosità fiscale nell’ambito dei tributi comunali.

Per quel che riguarda l’applicazione, tuttavia, non sono poche le questioni che inficiano questa apparente semplicità. Talora nelle delibere degli enti locali sul “baratto” si considerano infatti anche entrate comunali diverse dai tributi, come multe, rette, affitti delle case popolari ecc. E’ una differenza che può apparire minima ma che è in realtà molto importante: previsioni giuridico-contabili che riguardano i tributi (per i quali non e’ legittimo praticare sconti o cancellazioni: vedesi, più sotto, a questo proposito, la prima nota IFEL) non si possono applicare ad altre tipologie di entrate.

L’ente che promuove il “baratto”, inoltre, deve poi affrontare il problema di come calcolare l’equivalenza di valore fra debito e ore-lavoro; operazione certamente non facile, tenendo conto delle varie forme di prestazioni possibili.


La normativa di riferimento

La fonte normativa di tale nuovo istituto giuridico secondo molti si troverebbe nell’art. 24 del cosiddetto decreto “Sblocca Italia” (d.lg. 133/2014,  poi convertito nella l. 164/2014). La norma, riportata di seguito nella sua interezza, afferma che:

“I Comuni possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. L’esenzione è concessa per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e per attività individuate dai comuni, in ragione dell’esercizio sussidiario dell’attività posta in essere. Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forma associative stabili e giuridicamente riconosciute [sottolineatura dell’autore, ndr].

Tanto detto e riportato, questo scritto potrebbe fermarsi qui: è dato ad ognuno di analizzare sia il testo normativo sia la sua conversione concreta nel “baratto”, di confrontarli e di trarne le più adeguate conclusioni di termini di coerenza o di fraintendimento. Secondo l’opinione di chi scrive, tuttavia, il “baratto amministrativo” fa appello ad un’interpretazione sbagliata e infondata, poichè l’articolo 24 dello “Sblocca Italia” parla infatti d’altro: di sussidiarietà.

 L’ispirazione originaria del “baratto” potrebbe essere piuttosto reperita nell’art. 11, comma 2, lett. f) del D.Lgs 23/2011 (ora abrogato dalla Legge di Stabilità 2016) dove esplicitamente si discorreva – ed e’ per questo che lo citiamo qui – di sussidiarietà orizzontale. In questi termini: “i comuni, con proprio regolamento (…), hanno la facoltà di disporre esenzioni ed agevolazioni, in modo da consentire anche una più piena valorizzazione della sussidiarietà orizzontale, nonché ulteriori modalità applicative del tributo [imposta municipale secondaria]” [sottolineatura dell’autore, Ndr].

Né si può tacere della vicinanza di senso e di ispirazione con l’art. 23 del D.L. n. 185/2008 (convertito nella legge n. 2/2009) già nel titolo molto esplicito: “Detassazione dei microprogetti di arredo urbano o di interesse locale operati dalla società civile nello spirito della sussidiarietà”. Evitiamo di riportare la norma per intero, ma anche in questo caso si fa riferimento a gruppi di cittadini organizzati che possono formulare all’ente locale proposte operative e di pronta realizzabilità per opere di interesse locale, indicandone costi e mezzi e senza oneri a carico dell’ente pubblico, il quale ha peraltro facoltà di assistere, prescrivere e sostenere dal punto di vista organizzativo, regolando le fasi essenziali delle opere, la cui realizzazione non deve dar luogo a oneri fiscali e amministrativi a carico del gruppo di cittadini attuatore del microprogetto. In tutte le previsioni normative sin qui considerate, non vi è accenno alcuno alla remissione di pregressi debiti fiscali in cambio di prestazioni lavorative.


Il ribaltamento del principio contenuto nell’articolo 24

Cosa è dunque accaduto? Semplicemente questo: le potenzialità in termini di azione sussidiaria offerte dall’art. 24 dello “Sblocca Italia” sono state molto rapidamente alterate in provvidenze di natura socio-assistenziale, a conforto di singoli cittadini in difficoltà economica e conseguentemente morosi verso il proprio Comune. E, forse, anche a conforto delle difficoltà operative di tanti enti locali.

E’ insomma accaduto che la dimensione sussidiaria implicita nella norma è stata pressoché integralmente trascurata, o richiamata solo in veste di appello retorico e sterile. Immediata, invece, è scattata l’enfasi sul sinallagma “debito fiscale/prestazione lavorativa”, da applicarsi a chi sia in conclamata difficoltà economica (“morosità incolpevole”, si sottolinea). La sequenza logico-morale è stata pertanto interpretata nei fatti, e nei regolamenti comunali, così: difficoltà economica personale (meglio se “incolpevole”) → morosità fiscale nei tributi comunali (o altre poste d’entrata dovute al Comune) → disponibilità a lavorare in situazioni di pubblica utilità per il ripiano del debito fiscale (calcolo dell’equivalenza debito fiscale/ore-lavoro).

Così letta, la sequenza appare del tutto rovesciata rispetto ad un’autentica impostazione sussidiaria, dove il riferimento allo sconto fiscale sarebbe secondario ed eventuale, e comunque non motivante l’avvio della sequenza, che nei rapporti di sussidiarietà orizzontale ha il proprio incipit nella gratuita volontà di contribuire al bene comune (meglio se in forma associata) e non di trarne vantaggi personali in termini di sconti fiscali.


Le note IFEL

La pulsione verso il “baratto amministrativo” è tracimata così clamorosamente fuori dagli argini della norma positiva da spingere l’IFEL (la Fondazione dell’ANCI che si occupa di finanza locale) ad emettere una nota di chiarimento il 16 ottobre 2015, che in sintesi dice l’articolo 24 dello Sblocca Italia stabilisce che:

  • priorità d’attenzione va data a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e riconosciute, che sono i soggetti abilitati a proporre progetti di riqualificazione;
  • anche le agevolazioni fiscali devono riguardare in primo luogo gli stessi raggruppamenti organizzati di cittadini;
  • le tipologie di attività sono quelle dettate dalla norma, vincolante per i comuni;
  • vocazione alla sussidiarietà: i cittadini si sostituiscono ai Comuni, con un intervento sostitutivo e alternativo rispetto a quelli;
  • l’esenzione fiscale e’ concessa per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e specifiche attività;
  • va rispettata la corrispondenza fra beneficio reso alla comunità e l’eventuale agevolazione ottenuta.

E soprattutto, per quanto qui rileva, la nota sottolinea che “non appare coerente con la ratio della norma la possibilità di prevedere riduzioni o esenzioni anche con riferimento ad eventuali debiti tributari del contribuente. Un intervento in tal senso appare ancor meno opportuno se si considera il principio di indisponibilità e irrinunciabilità al credito tributario1 cui soggiacciono tutte le entrate tributarie comunali”. Insomma, per l’IFEL l’art. 24 dello “Sblocca Italia” guarda avanti: vuole che si pattuisca nel presente per progettare l’azione collettiva di domani, non si propone di sanare debiti pregressi.

Occorre tuttavia sottolineare che sempre l’IFEL, probabilmente a fronte di pressioni e reprimende non di poco conto, dopo l’emanazione di quella prima nota così poco benedicente di quanto stava (sta) accadendo in materia di pattuizioni fra cittadini fiscalmente morosi ed enti locali, il 22 ottobre 2015 ha emanato un’ulteriore nota che clamorosamente smentisce la prima – pur così perentoria e netta – proprio sotto questo particolare profilo. La nota infatti afferma, facendo un bel salto rispetto alla prima stesura, che “con riferimento alla possibilità di prevedere riduzioni od esenzioni relative a debiti pregressi del contribuente, appare ammissibile estendere il riferimento al periodo limitato e definito delle agevolazioni, al fine di comprendere la compensazione di debiti tributari pregressi attraverso gli interventi previsti dalla norma, con particolare riguardo a situazioni di disagio economico-sociale”.


Le ragioni della distorsione assistenziale

Ma come è maturata la distorsione assistenziale subita dall’art. 24, diventato inconsapevole pretesto per il cd. baratto amministrativo? Da tempo, si vanno cercando con crescente insistenza modalità di rapporto con la platea dei richiedenti aiuto economico che non siano a senso unico e passivizzanti, che non riproducano insomma quel “modello bancomat” che giustamente sempre meno piace ad operatori sociali ed amministratori locali.

Le riflessioni sul cd. welfare generativo si inquadrano in questa tendenza relativamente nuova, almeno nella sua portata ed intensità. Si veda ad esempio, a questo proposito, il gran lavoro in studio e ricerca prodotto dalla Fondazione Zancan di Padova2, che propone in welfare che (ri)attivi e mobiliti risorse e capacità: “cerchi aiuto, ma la comunità locale non lo fa per niente in cambio; chiede di sapere qual è il tuo impegno, la tua responsabilità verso te stesso, la tua famiglia, la comunità tutta; quello che ti viene dato deve trovare rispondenza in un tuo nuovo impegno per te e per gli altri”.

Approccio assai interessante, ricco di prospettive, e che insieme richiede attenta e delicata attuazione. Anche in qui, infatti, aleggia il rischio di interpretare al ribasso il concetto, mettendo di fatto “con le spalle al muro” chi è in difficoltà (una riedizione dell’antica consuetudine di marca anglosassone di obbligare al lavoro i poveri). In questo senso occorre infatti chiedersi quanto (e quando) sia legittimo il contratto prestazionale: disponibilità al lavoro per la comunità in cambio di benefici economici assistenziali. Al rifiuto dell’assistito di mettersi a disposizione, può legittimamente rispondersi col rifiuto di erogare il beneficio?

In verità, la rilevazione del bisogno dovrebbe essere indipendente dalla disponibilità personale di cui si parla, e una volta rilevato dovrebbe garantirsi – almeno a livelli essenziali – la risposta di sollievo dal bisogno. Meglio allora una risposta condizionata? Si può fare: l’uscita dal “modello bancomat” comporta la richiesta all’assistito – la sua “controprestazione” – di impegnarsi a fare qualcosa per sé e la sua famiglia, per la fuoriuscita dal bisogno, molto prima che per la “comunità”. Si tratta semmai di vedere se in questo far-qualcosa-per-se’ può starci anche un far-qualcosa-per-gli-altri. Il pensiero corre subito al recentissimo Piano di contrasto della povertà e alla mobilitazione proattiva che esso esige dai nuclei familiari che saranno presi in carico dai servizi territoriali.

Contribuisce al rischio di fraintendimento la previsione, nel panorama complessivo delle possibilità, di prestazioni di utilità sociale da parte di beneficiari di interventi sostitutivi del reddito (si veda il progetto “Diamoci una mano” bandito con ancora insufficiente fortuna dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e peraltro confermato per il 2016 e il 2017) ma, appunto, si tratta di provvidenze di altro tipo, in territori contigui ai compensi lavorativi. Non così per i contributi e i benefici assistenziali di qualunque tipo.


Un diverso inquadramento del “baratto” è possibile?

La risoluzione in forma individuale dello scambio “contributo assistenziale / prestazione lavorativa” appare difficile, anzi ardua, e rischiosa in termini di legittimità o di vera e propria legalità (abbiamo già accennato alla problematicità di prevedere prestazioni personali in cambio di morosità fiscali cancellate).

E la soluzione è forse in uno schema ben diverso, più collettivo ed organizzato. E più impegnativo per l’ente pubblico. Quello che può fare l’assistito beneficiato dal contributo economico è di mettersi a disposizione, per sé e la propria famiglia in primo luogo, in un progetto pensato anche per la comunità: un progetto che sia esplicitamente denotato da finalità di reinserimento lavorativo e sociale. E questo deve essere inevitabilmente predisposto e gestito dalla parte pubblica, sia pure in eventuale collaborazione con terzi e con il privato-sociale in particolare.

Scopriamo ancora una volta che non ci sono facili scorciatoie: il maggior impegno richiesto al cittadino assistito presuppone il maggior impegno della parte pubblica.

 

  1 Il principio di indisponibilità del credito tributario comporta il divieto per gli uffici finanziari di determinare il tributo in base a valutazioni di merito economico o sociale, perché questo compito spetta al legislatore. Tale principio, per il quale non è ammessa discrezionalità amministrativa in ordine al se e al quanto dovuto, ha il suo fondamento nell’art. 23 Cost. («nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge»). Infatti, dalla riserva di legge discende che su doverosità ed entità delle prestazioni tributarie non sono possibili “scelte” amministrative, ossia che l’azione amministrativa su tali profili è vincolata.

  2 “Va superato un modello di welfare basato quasi esclusivamente su uno stato che raccoglie e distribuisce risorse tramite il sistema fiscale e i trasferimenti monetari. Serve un welfare che sia in grado di rigenerare le risorse (già) disponibili, responsabilizzando le persone che ricevono aiuto, al fine di aumentare il rendimento degli interventi delle politiche sociali a beneficio dell’intera collettività” (www.welfaregenerativo.it).