3 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Una dei pochi tratti costanti della politica italiana è stata, sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’"àncora" europea. Nel suo piccolo (rispetto a Francia e Germania), il nostro paese è sempre stato aperto all’integrazione e si è sforzato di promuoverla anche nei momenti di stallo. Nel lungo periodo, questa scelta ci ha ripagato in termini di sicurezza, prosperità, modernizzazione istituzionale.

Stanno ora emergendo allarmanti segnali di “disancoramento”. Internamente, sono emerse o cresciute forze politiche ostili all’Europa e alla moneta unica: Lega, Fratelli d’Italia, i Cinque Stelle, la stessa Forza Italia. Esternamente, le acque della UE si sono fatte più tempestose e le istituzioni di Bruxelles hanno perso la capacità di fare sintesi tra esigenze, interessi, culture del Nord, del Sud e dell’Est.

In questo clima, il rischio di perdere l’àncora è alto. Nei circoli che contano, le valutazioni sul nostro paese sono sempre più negative. Gli sforzi compiuti dal governo Monti a oggi vengono sminuiti o disconosciuti e circolano scenari di uscita (espulsione?) dell’Italia dall’euro. Per molti osservatori restiamo una mina vagante. Senza tanti complimenti, ce l’ha ricordato un articolo dell’ultimo Economist. Nel nostro provincialismo, di quel supponente editoriale abbiamo colto solo l’invito a votare no al referendum. I messaggi più importanti erano però altri due: l’Italia costituisce la principale minaccia per la sopravvivenza dell’Unione europea (sic); se il referendum fallisce, la miglior soluzione sarebbe un governo tecnico.

I problemi economici dell’Italia non possono certo essere sottovalutati. In larga misura, essi sono l’effetto di improvvide politiche del passato, di errori e incapacità di tutta la classe dirigente, imprenditori e sindacati compresi. Ma va detto con altrettanta franchezza che l’Unione economica e monetaria, così come funziona oggi, non ci è (più) di aiuto per uscire dalla crisi: vincoli fiscali troppo rigidi, poche opportunità e sostegni per la crescita.  La risposta non può essere quella di abbandonare l’àncora. Il paese è troppo fragile per navigare da solo nel mare della globalizzazione. Dobbiamo al contrario rinsaldare gli ormeggi, facendo in modo che tornino a essere per noi vantaggiosi.

Come? In primo luogo, impegnandoci per riformare le regole e ridefinire la stessa missione dell’Unione economica e monetaria. È un compito difficile, perché significa sfidare l’egemonia tedesca. Una sfida pacata, per carità, ma che non può essere evitata. Berlino ha lanciato un’offensiva contro la flessibilità e vorrebbe trasferire il controllo dei bilanci nazionali a una agenzia indipendente, in modo da ripristinare il paradigma dell’austerità. Inoltre la Germania controlla ormai tutte le posizioni chiave a Bruxelles. Il portafoglio del bilancio e le risorse umane (che comporta anche il titolo di Vicepresidente) sta per passare dalla bulgara Georgeva al tedesco Oettinger, figura peraltro molto discussa.

In secondo luogo, va rilanciata con forza l’agenda delle riforme interne per rimuovere i tanti ostacoli endogeni alla crescita. La nostra credibilità dipende dai segnali di cambiamento che sapremo fornire. E per questo occorrono stabilità politica e capacità di decisione.

Qui arriviamo al tema del referendum costituzionale. Il 4 dicembre ciascuno di noi dovrà ovviamente decidere sul merito, con una valutazione di sintesi: nel suo complesso, la riforma approvata dal Parlamento è un passo avanti oppure no rispetto alla situazione attuale, soprattutto sul piano dell’efficacia decisionale?

Non possiamo però far finta che il voto non abbia implicazioni politiche, anche immediate. Se vince il no, per la prima volta prevarrebbe in Italia (fatte salve alcune voci autorevoli ma isolate e perciò ininfluenti) un fronte dichiaratamente euro-scettico. Se Renzi dovesse dimettersi, l’ipotesi più probabile è un governo di transizione, mentre si aprono “tavoli” tra forze eterogenee e litigiose. Un esecutivo per mantenere un po’ d’ordine, insomma, oppure per gestire una possibile crisi finanziaria. E’ quello che si augurano in molti a Bruxelles e in altre capitali. Ma converrebbe anche a noi italiani?

Di fronte ai bivi della storia, è bene riflettere su tutti i possibili scenari. Fra questi, per il dopo voto ce ne sono due che dovrebbero preoccuparci molto. Da un lato, il completo disancoramento dell’Italia dalla UE e l’inizio di una navigazione senza bussola, fuori dall’euro. Dall’altro lato, un commissariamento esterno da parte della Troika.

Invece di un’àncora, Bruxelles diventerebbe il nostro guardiano, nella convinzione che l’Italia sia un paese irrimediabilmente discombobulated. È l’aggettivo che ha usato l’Economist, per ora solo in riferimento ai Cinque stelle. Vuol dire confuso, inaffidabile, mentalmente instabile. Noi non siamo così: il percorso di riforme che abbiamo saputo intraprendere dal 2011 è lì a dimostrarlo. Il PIL è tornato a crescere, seppur debolmente, così come l’occupazione, e forse s’intravede una luce in fondo al tunnel. Riflettiamo bene, dunque, su quale sia la scelta migliore per riprendere speditamente il cammino. Se possibile, già a partire dal 5 dicembre.


Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 28 novembre